Gli psicologi sui social network

La professione dello psicologo, seppur meno di un tempo, ancora fatica ad ottenere un riconoscimento sociale.

Le ragioni possono essere molteplici, probabilmente connesse all’identità di una scienza imperfetta, al timore di affidarsi e del cambiamento, alla tendenza sempre più diffusa a ricercare soluzioni rapide, delegando la responsabilità della cura fuori da sè. 

Sembra quindi più semplice accettare l’assunzione degli psicofarmaci o curare ossessivamente il proprio aspetto esteriore piuttosto che guardarsi dentro e richiedere un supporto psicologico e psicoterapeutico.

Non colludendo con una ricerca delle cause esclusivamente all’esterno e assumendo una prospettiva d’osservazione orientata alla co-responsabilità, è importante potersi interrogare come professionisti della salute sulla propria parte.

In che modo gli psicologi possono contribuire a confermare la diffidenza delle persone? 

E come invece possono favorire nelle persone la possibilità di prendersi cura delle proprie sofferenze psicologiche ed emotive, rivolgendosi ad un professionista?

Ritengo che due condotte in particolare possano essere rischiose: l’eccessiva semplificazione e la rigidità.

Per eccessiva semplificazione si intende la tendenza a banalizzare i contenuti in materia, riducendo il proprio ruolo a colui che dispensa consigli, che trasmette strategie, generalizzando teorie e trascurando il motore fondamentale della soggettività, nonché la necessaria conoscenza della persona.

Questo approccio, anche se teso alla promozione del benessere, rischia di veicolare un messaggio svalutante della professione e della competenza specifica.

In passato uno slogan circolava in rete citando la frase “Non siamo tutti un po’ psicologi”, con l’obiettivo di contrastare il rischio di confondere la professione, rinforzando l’importanza di un ascolto qualificato di un professionista formato in materia dopo anni di studi, tirocini abilitanti e analisi personale.

All’estremo opposto, anche un atteggiamento rigido che colloca lo psicologo esclusivamente all’interno del proprio studio, promotore di un linguaggio complesso e poco accessibile può ostacolare la comunicazione con le persone e trasmettere un’immagine “di nicchia”, che rischia di raggiungere solo coloro che appartengono ad un determinato status socio-culturale, allontanando gli altri.

Inoltre, questa condotta distanziante risulta poco ancorata alla società odierna, che fonda le modalità relazionali su canali comunicativi anche digitali.

Che ruolo hanno i social network?

Numerosi professionisti possiedono una pagina professionale sulle piattaforme più comuni, come Facebook e Instagram.

Rispettando la soggettività del professionista, ci sono fattori di rischio che trasversalmente possono riguardare l’esperienza online.

In particolare ci soffermeremo su due aspetti: l’identità e le finalità.

È fondamentale che sia trasmessa un’identità professionale chiara, che possa fornire contenuti qualificati e coerenti con il proprio ruolo.

Le finalità, oltre a quella di far conoscere la propria mission professionale, devono essere esplicitate.

Se può essere utile proporre la sensibilizzazione su tematiche specifiche, promuovendo l’acquisizione di una maggiore consapevolezza, può risultare dannoso esporre la persona al rischio di confondere l’azione preventiva con l’intervento terapeutico.

È altresì responsabilità etica e professionale sollecitare la richiesta di aiuto in coloro che nell’interazione social comunicano un malessere significativo, che non può trovare risoluzione nello spazio virtuale.

L’esperienza online può configurarsi come un ponte che accompagna gli utenti verso una maggiore conoscenza.

L’utilizzo dei social network a scopo professionale può quindi costituire una risorsa per lo psicologo solo se supportato dalla consapevolezza, traducendosi in una possibilità autentica di avvicinamento alle persone nella loro eterogeneità.

A cura della Dott.ssa Giulia Gregorini

Psicologa – Psicoterapeuta